Lettura critica del programma americano di primo aiuto per prevenire stragi

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 30 maggio 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

(Quarta ed Ultima Parte)

 

4. Oltre i cinque passi: video di istruzione ed esercitazioni. Sempre nelle otto ore, i corsisti possono assistere a dei video che rappresentano modelli di situazioni reali, così come sono state ricostruite o immaginate dagli ideatori, e prendere parte a delle esercitazioni, concepite per accrescere la conoscenza di problemi psichiatrici attraverso giochi di simulazione.

Il contenuto-tipo dei video, tecnicamente bene realizzati da ogni punto di vista, è perfettamente coerente con la visione che ispira il corso, ma presenta casi e situazioni che difficilmente saranno riscontrati in quella forma nella vita reale.

Dubbi maggiori si possono nutrire per il modo in cui sono concepite le esercitazioni. Ad esempio, per far comprendere cosa voglia dire avere delle allucinazioni uditive, ossia udire voci prodotte dal proprio cervello, i partecipanti al corso vengono impegnati in una sorta di gioco di recitazione con ruoli e compiti: mentre uno dei corsisti è concentrato nel tenere una conversazione che richiede attenzione, un altro corsista gli sussurra con urgenza qualcosa all’orecchio tutto il tempo.

A parte che un simile effetto di disturbo mi ricorda più l’esperienza di pazienti ossessivi che sono distratti dalla voce del proprio pensiero durante una conversazione, che l’esperienza allucinatoria, c’è da chiedersi se chi fa un corso breve per la prevenzione di atti criminosi commessi da psicotici debba provare a “sentirsi come uno che sente delle voci” o non debba piuttosto ricevere nozioni sul rapporto fra tipi e forme di manifestazioni allucinatorie in relazione con tipo e gravità delle alterazioni mentali del soggetto. In altri termini, anche se la simulazione fosse appropriata - e non lo è - non andrebbe a soddisfare un’esigenza prioritaria.

Ma, riguardo al sussurrare all’orecchio che dovrebbe simulare l’esperienza delle allucinazioni uditive, vorrei fare qualche altra breve considerazione. Scontato che sui buoni manuali di semeiotica e clinica psichiatrica si trovano trattazioni sistematiche ed esaustive sulle allucinazioni e che l’allucinazione è caratterizzata da percezione in assenza di oggetto o fenomeno fisico oggettivamente percepibile, l’elemento di maggiore importanza nella mia esperienza è costituito dallo stato mentale associato, sia nel senso del funzionamento psichico sia nel senso dello stato d’animo e del vissuto che accompagna l’attualità allucinatoria. Per le allucinazioni uditive in pazienti psicotici ho visto una gamma completa che va dall’allucinazione in un contesto di delirio acuto e destrutturato a fenomeni che sembravano manifestarsi su un fondo di equilibrio e compenso, determinando al loro apparire reazioni emozionali intense ed innesco di crisi psicotiche e scompenso. Ugualmente, ho avuto modo di verificare una serie varia ed estesa di possibilità circa il rapporto con le voci e l’interpretazione della loro origine, natura ed identità da parte dei pazienti. La voce intracerebrale poteva essere identificata con quella di una persona amata, odiata, desiderata o temuta; attribuita al demonio, ad una potenza celeste, ad una persona scomparsa, ad una rockstar, ad un attore, un capo di stato, un personaggio storico, e così via. Ho visto persone star male perché impossibilitate a sottrarsi al dominio della voce, alla sua influenza, alla sua ineluttabilità; ed ho visto persone dialogare e litigare con le proprie allucinazioni. Una cosa che non mi è mai capitato di osservare è l’assenza di turbamento: nella massima parte dei casi l’evento allucinatorio negli psicotici o era strettamente associato con uno stato di squilibrio psicoemotivo o innescava qualche forma di turbamento che, magari, il paziente riusciva a tenere a bada grazie ad uno specifico training. Se non si ha la coscienza funzionalmente alterata dall’acuzie psicotica, la comparsa intracerebrale di voci turba la coscienza e si impone come una circostanza che richiede un intervento cognitivo, quando quello emotivo si è già avuto: da un lieve stato di allerta, da una leggera preoccupazione, fino a rabbia, paura, terrore; forse perché i sistemi neuronici della corteccia temporale uditiva (area 41 e limitrofe) sono prossimi e continui con quelli emozionali dell’amigdala e di altre formazioni del lobo temporale mediale.

Un relativo distacco emozionale da voci ed altri fenomeni acustici prodotti dalla propria corteccia cerebrale si ha più spesso (ma non sempre) in pazienti neurologici. Ricordo due sorelle affette da una malformazione arterovenosa congenita del lobo temporale: prima l’una, poi l’altra, all’incirca alla stessa età, cominciarono a percepire una voce maschile ed altri fenomeni pseudo-acustici. Nessuna delle due aveva mai creduto di essere matta o che la voce fosse prodotta da qualche evento misterioso o prodigioso; la prima delle due a fare la brutta esperienza riuscì quasi ad indovinare la diagnosi e la seconda ne fece tesoro. Entrambe furono inviate al neurochirurgo.

Oltre ai video e alle esercitazioni, i partecipanti alla full-immersion ricevono nozioni di base sui disturbi mentali, il cui scopo è far vincere il timore per il vero o presunto malato di mente che potrebbero incontrare, e supportare la fiducia nella possibilità di aiutarlo. In realtà, la massima parte del contenuto proposto è costituito da dati epidemiologici ed elenchi di sintomi secondo i criteri del DSM. Il corsista saprà che negli USA la schizofrenia e le altre psicosi, ossia le malattie mentali più spesso rilevate in coloro che commettono crimini, sono in realtà rare e che, invece, i disturbi d’ansia riguardano oltre il 18% della popolazione. Vede slides con elenchi di sintomi ripartiti nelle classiche categorie del DSM  - il cui senso e fondamento, da solo, richiede più di una lezione di clinica psichiatrica per essere illustrato a medici già esperti di nosografia e criteri diagnostici - senza avere la possibilità di fissarne alcuno, né di attribuirlo ad un prototipo umano. Da questa carrellata il corsista medio può recepire che, salvo l’eccezione delle demenze e di qualche disturbo dell’infanzia, qualsiasi persona, indipendentemente dal sesso, dall’età e da altri fattori, può sviluppare una delle centinaia di disturbi elencati: il che non è affatto vero.

 

5. Le principali esperienze di MHFA e la valutazione metanalitica del Karolinska Institute di Stoccolma. A Filadelfia, sotto la responsabilità di Arthur C. Evans, commissario del Department of Behavioral Health, è in atto il programma di MHFA di maggiori proporzioni: non molto tempo dopo l’avvio, già 7000 residenti avevano ottenuto l’attestato di partecipazione. Evans, secondo quanto riportato nell’articolo già citato e caratterizzato da un tono generale di propaganda dell’iniziativa, afferma che il corso consente di istruire la comunità sulla malattia ed intervenire tempestivamente, prima di quanto si sia fatto in passato[1].

Le prime verifiche sull’utilità del programma per educatori e persone impegnate nei servizi sociali hanno dato esiti positivi, determinando l’inclusione dell’MHFA nel SAMHSA, cioè nel Registro Nazionale di Programmi e Pratiche Basate sull’Evidenza. Tale misura non meraviglia in quanto il programma è parte integrante del piano per la sicurezza nella scuola, suggestivamente intitolato “Now Is the Time” dall’Amministrazione Obama, e già finanziato in 120 distretti scolastici di stato e locali.

Un aspetto di particolare interesse è l’impatto sui dipartimenti e le scuole di polizia.

A Rhode Island la formazione MHFA è già parte del curriculum di una delle tre accademie di polizia locali ed è uno dei corsi più noti nei presidi di polizia disposti sul territorio. Joseph Coffey, capitano del Dipartimento di Polizia di Warwick a Rhode Island, che dopo aver seguito il corso ne è diventato docente, sottolinea che la preparazione standard del poliziotto era volta a fornire indicazioni su come comportarsi in situazioni in cui una persona presumibilmente malata di mente prende degli ostaggi e si barrica in una stanza, ma mancava del tutto di informazioni su persone che sono affette da disturbi d’ansia, depressione o disturbo post-traumatico da stress[2].

I finanziamenti stanziati per la realizzazione del corso sono stati in parte impiegati anche per la documentazione dei suoi esiti e la verifica della sua efficacia. I principali studi pubblicati sono stati sottoposti a meta-analisi da parte di un team svedese del Karolinska Institute di Stoccolma. La valutazione, condotta su 15 lavori, ha dato il seguente esito: 1) aumento della conoscenza media sulla malattia mentale; 2) riduzione di atteggiamenti negativi verso le persone affette da disturbi psichici; 3) aumento della fiducia circa la possibilità di assistere una persona mentalmente disturbata.

A modesto avviso di chi scrive, questo rilievo è la conseguenza ovvia e scontata di un corso di istruzione in un ambito in cui le conoscenze della popolazione generale sono pari a zero. Se si tenesse un corso intensivo su come riconoscere e raccogliere funghi e tartufi, nessuno si meraviglierebbe se chi vi ha partecipato avesse una conoscenza maggiore, avesse superato qualche pregiudizio e mostrasse una maggior fiducia nella possibilità di applicarsi con successo nella raccolta. La questione è che il programma MHFA è stato concepito e varato per prevenire crimini come la strage nella scuola elementare di Newtown, e dunque la sua efficacia si attesterebbe se si verificasse che, grazie a nozioni acquisite al corso, qualcuno ha prevenuto atti che avrebbero potuto portare a simili tragedie.

Un aspetto mi sembra evidente, considerando sia il materiale del corso, sia i commenti delle persone che partecipano al progetto come docenti ed allievi: non si esce dall’equivoco informazione/formazione.

Il fine dell’informazione è la trasmissione di notizie; il fine della formazione è il conferimento di abilità. Nel primo caso il compito consiste nell’esposizione e nella proposizione di contenuti nuovi (nuove, anche in senso etimologico: news), e per questo non noti; nel secondo caso il compito coincide con la missione della didattica, ossia con l’insegnamento, il cui fine è determinare un arricchimento di conoscenze in grado di conferire possibilità nuove di concepire ed agire. Il modello delle 8 ore e dei 5 punti, pur avendo il fine dichiarato di insegnare qualcosa, rimane più vicino ai mezzi idonei alla trasmissione di notizie e di know-how, che a quelli in grado di formare, cioè cambiare le persone, conferendo loro un’identità culturale o professionale da aggiungere a quella personale.

Intendiamoci, l’MHFA prevede strumenti in sé efficaci, quali i video e le esercitazioni, ma i loro contenuti, sia per lacune degli ideatori sia per la pretesa assurda di formare in poche ore, risultano del tutto inadeguati.

Il punto primo del programma, senza mezzi termini, richiede che si pongano diagnosi psichiatriche, sia pur generiche o, come si suole dire, di primo livello.

Non faccio mistero della mia obiezione di fondo: non è possibile valutare e comprendere di fronte a chi e a cosa ci si trova con qualche istruzione generica, senza aver fatto esperienza diretta - con l’aiuto di uno psichiatra didatta - di persone affette da disturbi mentali. Tutti noi che abbiamo seguito una simile pratica formativa, durante la nostra vita professionale abbiamo costruito quel bagaglio di esperienza che ci consente di comprendere e scegliere, proprio a partire da casi illustrati, analizzati, verificati e monitorati durante il nostro tirocinio. Tali casi clinici sono stati per noi un costante termine di paragone, e quelli che presentavano caratteri di tipicità, hanno rappresentato dei veri e propri paradigmi operativi.

Il corso, poi, non fornisce alcuni elementi di conoscenza pratica e di tecnica di approccio di base, che sono indispensabili per orientarsi in molti casi.

Ad esempio, quando si è di fronte ad uno sconosciuto, come si fa a distinguere chi dice cose assurde perché fuori di sé dalla rabbia, da chi delira in preda ad una crisi psicotica aggressiva? Quando ci si accorge che una persona con propositi criminosi ha porto d’armi e frequenza al poligono di tiro, la cosa migliore da fare è ascoltarla senza giudicarla, con un atteggiamento da pseudo-psicologo, e poi consigliarle di rivolgersi ad un non meglio definito “professionista della salute mentale”, certi che seguirà il nostro consiglio e, magicamente, con la terapia scompariranno piani e propositi; oppure è preferibile avvertire la polizia, che provvederà ad eliminare al più presto dalla sua disponibilità tutte le armi, la sottoporrà a sorveglianza o la invierà ad un istituto di clinica psichiatrica per un ricovero in trattamento sanitario obbligatorio in regime di stretto controllo giorno e notte?

Anche lo standard di approccio suggerito può essere inopportuno o addirittura pericoloso in qualche caso. Le psicosi - correttamente diagnosticate - nella massima parte dei casi si accompagnano a mancanza di consapevolezza di malattia. A differenza della persona depressa per eventi frustranti, stress protratto, perdita di affetti, della salute, del lavoro, che anche quando non chiede aiuto, se lo trova lo accetta, lo psicotico in eccitazione maniacale o schizofrenica e lo psicotico da cerebropatia organica, anche se in fase depressiva, reagiscono negativamente all’offerta o al suggerimento di aiuto psicologico. Quante volte accade che uno psicotico si insospettisca per un comportamento insolito come quello di prestargli ascolto senza rispondere alle sue provocazioni, reagire, esprimere giudizi e opinioni! Se tende ad attribuire intenzioni malvagie ad altri, può vedere questo atteggiamento come parte di una macchinazione a suo danno, finalizzata a condurlo in un ospedale psichiatrico; siccome si ritiene sano di mente e circondato da persone che vogliono il suo male, l’approccio di un corsista MHFA potrebbe allontanarlo ancora di più dalla possibilità di accettare un aiuto psichiatrico. Aiuto che si potrà fornire grazie a stratagemmi concepiti ad hoc.

Infine, la realtà dei singoli pazienti psichiatrici è varia e complessa e non si presenta quasi mai secondo lo schematismo dei quadri clinici e degli elenchi di sintomi “maggiori e minori” proposti dai docenti dell’MHFA; ma, per rendersene conto, non vi è possibilità alternativa a quella di incontrare in istituti clinici universitari malati di mente osservati e diagnosticati da psichiatri didatti, che possano orientare l’osservazione ed insegnare nella pratica la significatività e il valore delle manifestazioni osservate.

Ma di questo scarto, che esiste fra i paradigmi del DSM proposti al corso e la realtà, non vi è traccia nei contenuti dell’MHFA. È perciò giustificato temere che questo genere di corsi possa creare l’erronea convinzione di possedere una reale competenza in materia di psicopatologia e, in persone prive di nozioni di fisiologia e patologia del cervello e di strumenti per una gestione ragionata di un cumulo di nozioni affastellate in poche ore, possa determinare equivoci interpretativi e, conseguentemente, condotte che potrebbero provocare più danni di quanti riescano ad evitarne.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani e invita alla lettura delle numerose recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-30 maggio 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Cfr. Aliyah Baruchin, First Aid for Mental Health. Scientific American MIND 26 (2), 68-72, 2015.

 

[2] Cfr. Aliyah Baruchin, op. cit.